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Last 10 Posts [ In reverse order ]
~Piccolo PoetaPosted: 1/7/2012, 15:43
(In fondo al topic c'è una scrollbar, usatela per vedere tutto il post)

Licia Troisi
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In aggiornamento


@Biografia
Sono nata a Roma il 25 novembre 1980. Ho iniziato a dilettarmi di scrittura più o meno quando ho imparato a leggere. Le prima favolette che ho scritto datano 1987 e per gioco sono raccolte in un volume rilegato in cartoleria che avevo intitolato Le Mille e una…Licia, un titolo per nulla pretestuoso. A otto anni ho scritto un “romanzo”, anche quello i miei l’hanno fatto rilegare, e ora sta nello scaffale più alto della mia libreria. È lungo la bellezza di venti pagine e si intitola Sindy e Mindy; ha le atmosfere ispirate al cartone animato strappalacrime che seguivo all’epoca, Lovley Sarah. Ho frequentato il liceo classico e in quel periodo ho scritto il diario e qualche racconto. Un paio di volte mi sono cimentata con la poesia, provando definitivamente che è un genere che proprio non fa per me (sono davvero negata), ma mi mancava una storia di ampio respiro intorno alla quale sfogare la mia voglia di scrivere.
Dopo il liceo, mi sono iscritta alla facoltà di fisica e mi sono laureata in astrofisica il 17 dicembre 2004, data memorabile. Durante gli anni di università, oltre a conoscere il mio attuale marito, ho iniziato a leggere fumetti, principalmente manga, e a conoscere un po’ meglio il mondo della fantasy. Così, a 21 anni ho finalmente trovato la storia che cercavo e ho iniziato a scrivere le Cronache del Mondo Emerso. Mi ci è voluto un anno e mezzo per finirle e sei mesi per fare una prima approssimativa correzione, dopo di che, senza troppe speranze, ho spedito il manoscritto all’unica casa editrice di cui conoscessi l’indirizzo, la Mondadori. Dopo tre mesi mi è arrivata la fatidica telefonata e ad aprile del 2004 il mio libro è arrivato in libreria.
Attualmente sono dottoranda in astronomia.
Per quel che riguarda i miei gusti, amo molto la musica, specialmente rock e classica (proverbiale la mia passione per i Muse), leggo moltissimo (o non sarei in grado di scrivere neppure una riga), leggo molti fumetti e mi piace il cinema.


@Libri
I REGNI DI NASHIRA


Nashira è un mondo misterioso in cui l’elemento più prezioso è l’aria: è sempre più scarsa, e solo i giganteschi alberi che ricoprono Talaria, il suo regno più esteso, sono in grado di produrla. Ma l’aria tende a disperdersi in fretta… >>>

Il sogno di Talitha (Mondadori, 2011)


IL MONDO EMERSO


Secoli fa il Mondo Emerso apparteneva agli Elfi, creature purissime che vivevano in armonia con la natura. Purtroppo, l’uomo e gli gnomi posero fine alla loro vita pacifica >>>

CRONACHE DEL MONDO EMERSO

Nihal della terra del vento (Mondadori, 2004)
La missione di Sennar (Mondadori, 2004)
Il talismano del potere (Mondadori, 2005)
Cronache del Mondo Emerso – La Trilogia (Mondadori, 2006)


LE GUERRE DEL MONDO EMERSO

La setta degli assassini (Mondadori, 2006)
Le due guerriere (Mondadori, 2007)
Un nuovo regno (Mondadori, 2007)
Le Guerre del Mondo Emerso – La Trilogia (Mondadori, 2009)
Le Guerre del Mondo Emerso – Guerrieri e Creature (Mondadori, 2010)


LE LEGGENDE DEL MONDO EMERSO

Il destino di Adhara (Mondadori, 2008)
Figlia del sangue (Mondadori, 2009)
Gli ultimi eroi (Mondadori, 2010)


LE CREATURE DEL MONDO EMERSO

Le creature del Mondo Emerso (Mondadori, 2008)


LA RAGAZZA DRAGO


Una quadrilogia che ha appassionato anche i lettori più giovani. Gli spiriti di alcuni draghi vissuti in epoche remote sopravvivono nell’animo di alcuni ragazzi umani: i Draconiani. >>>

L’eredità di Thuban (Mondadori, 2008)
L’albero di Idhunn (Mondadori, 2009)
La clessidra di Aldibah (Mondadori, 2010)
I gemelli di Kuma (Mondadori, 2011)
L’ultima battaglia (Mondadori, 2012)


I DANNATI DI MALVA


Malva, la scintillante città di vetro e metallo, circondata dalla foresta. E laggiù, scavata nella terra, l’altra città oscura e bestiale. Sopra gli umani, sotto i loro schiavi. >>>

I Dannati di Malva (Edizioni Ambiente, 2008; Mondadori, 2011)


EXTRA


Una raccolta di chicche per veri appassionati: estratti introvabili, racconti e brani letti durante gli eventi speciali a cui Licia ha partecipato.

Estratto dal libro dedicato al Tiranno (La Repubblica del 15 Dicembre 2007)
Ai confini della realtà
Intervista a Eddie the Head (Rolling Stone n° 57)
Raggio di Luna (Festival delle letterature di Roma 2009)


@Extra


Questo racconto è stato pubblicato il 15 Dicembre 2007 su La Repubblica, ed è un estratto da un libro dedicato alla storia del Tiranno.

Era un locale ampio e fumoso, un grosso stanzone dal soffitto basso. Le pipe riempivano l’aria di un odore acre che prendeva alla gola e impregnava le pareti di legno vecchio e scuro. C’erano parecchi tavoli, e clienti di ogni razza.
C’era persino qualche fammin, seduto in disparte, gli occhi impauriti a percorrere tutta la sala, le mani strette sul legno del tavolo e i nervi tesi, pronti a scattare al minimo segno di pericolo.
Eppure avevano detto che tutto sarebbe cambiato, pensò l’uomo entrando. Avevano detto che non ci sarebbe stato posto per l’odio nel nuovo mondo, che tutti sarebbero stati uguali. Ma l’unica uguaglianza era ancora e sempre quella della morte; i cadaveri sulle strade erano tutti identici. Le vittime della vendetta cadevano nei vicoli a frotte.
Ma forse le cose sarebbero cambiate, un giorno. C’era aria di rinnovamento, e il vociare confuso di quel locale ne era un segno. La gente usciva, viaggiava, e a cinque anni di distanza dalla fine del Tiranno si percepiva ancora una specie di euforia, di ansia di consumare tutta e subito la libertà ritrovata.
L’uomo diede una scorsa ai volti che lo circondavano. Viaggiatori, giovani locandiere che scherzavano coi clienti, qualche soldato della nuova guardia. Forse le sue storie avrebbero potuto interessare qualcuno. In fin dei conti, alla gente del Mondo Emerso piaceva ancora sentirsi raccontare dei giorni epici della vittoria, di come una sola donna aveva sconfitto il Tiranno e il suo impero con la forza della sua spada. Il Mondo Emerso pullulava di cantastorie che non si stancavano di raccontare la storia di Nihal la Rediviva e di Sennar il Consigliere.
Ma vorranno davvero ascoltare? Vorranno davvero conoscere il volto oscuro della leggenda?
A ogni locale, sempre la stessa domanda. Su ogni soglia l’uomo si fermava e si domandava la ragione di quel vagabondaggio senza fine. Aveva consumato i calzari su vie polverose e non ancora sicure, e la voce a raccontare storie di morti. Perché?
Domande inutili. Un menestrello canta, e basta.
Si sentì toccare su una spalla. Una ragazzina dagli occhi maliziosi.
«Desiderate qualcosa? Una birra? Del sidro? Non sembra, ma ci sono tavoli liberi.»
L’uomo sorrise. C’era anche voglia d’amore in quelle terre.
«Non vengo qui a prendere ma a dare» rispose. «Sono un menestrello».
La ragazza batté le mani, felice.
«Oh, splendido! Accomodatevi, dunque. Ci narrerete di Nihal? O andrete più indietro nel tempo, e ci parlerete del regno di Nammen?»
L’uomo si limitò a sorridere, mentre i suoi occhi cercavano un luogo adatto. Fu la cameriera stessa a indicargliene uno. Aggrappata al suo braccio, lo condusse a un tavolo libero e un po’ sopraelevato rispetto al resto della sala.
«Che dite, qui andrà bene? Io mi metto davanti a voi, e berrò ogni vostra singola parola.»
«Qui mi sembra perfetto.»
L’uomo si sedette. Estrasse il liuto da sotto il mantello e iniziò lentamente ad accordarlo con l’orecchio premuto sulla cassa: il fracasso era infernale.
Visto da là, il locale sembrava un grosso formicaio brulicante. Il cantastorie lo esaminò con occhio esperto.
Un fammin che ha combattuto per il Tiranno, un Errato. Sta lì a dirsi che era tutto più facile quando bastava obbedire, quando uccidere era l’unica scelta. Ora, senza più un padrone, cosa resta di lui?
Un vecchio mercenario. Il gusto del sangue l’ha reso schiavo, e ora che c’è la pace non sa darsi per vinto. La sua spada è assetata, ha ancora bisogno di uccidere. E allora andrà verso la Grande Terra, entrerà nella Guardia Nuova, e un giorno quelli come lui precipiteranno il mondo nel sangue.
Una ragazza piena di voglia di vivere. Si vende in questa locanda, in attesa che l’amore passi di qui e la porti via con sé. Non sa che invecchierà tra queste mura, e che la vita le porterà via i sogni a uno a uno. Quando la prima ruga le solcherà la fronte s’accorgerà di essere troppo vecchia per attendere ancora.
Per lui ogni uomo era una storia. Da giovane aveva preso l’abitudine di guardare la gente e cercare di indovinare le loro vite dai gesti e dai tratti. Un gioco assai utile per chi vive di racconti. Poi era giunta La Grande Storia, e vi si era dedicato, fino a ricostruirla tutta, brano a brano.
Intonò il suo strumento e lo pizzicò delicatamente. Alle prime note malinconiche più di un avventore si riscosse e si voltò verso di lui.
Fu allora che il menestrello notò la figura esile appoggiata al bancone, nascosta da un mantello e da un cappuccio. Una birra stretta in una mano, pallida e intessuta di rughe, la schiena curva. Non seppe perché, ma in quella confusione era quella figura ad attrarlo.
È una donna, lo sento. Ha viaggiato a lungo, manca da molto da queste terre. Ha lasciato qualcosa d’importante, ha vissuto tutta la sua vita fuggendo, ma quando si è accorta che da se stessi non si fugge, è tornata. Non c’è più nessuno come lei, è un relitto di un’epoca perduta, sta qui a bere, in attesa della fine. Andarsene non è servito a niente, se non ad accelerare i tempi.
Il menestrello sorrise, le dita trovarono rapide la via degli accordi, e una musica triste e antica colmò il locale, arrampicandosi per le pareti e le travature del soffitto, disputando col fumo lo spazio di quello stanzone.
A una a una le chiacchiere e le risate si spensero. La figura ammantata strinse con più vigore la mano attorno al boccale, voltando il cappuccio nero verso di lui. Sotto di esso, il menestrello intuì uno sguardo d’infinita tristezza.
La musica salì lenta e pura.
«Quella che ascolterete» recitò il menestrello «è una storia già scritta, un racconto già narrato. La sua conclusione è stata vergata in caratteri di sangue, e il suo protagonista ha già pagato i suoi peccati e i suoi errori. Non una delle mie parole potrà cambiare il suo destino. Niente potrà cancellare i suoi misfatti e le sue colpe.
Racconterò della sua speranza e della sua disperazione, della gioia cui aspirava e del dolore che ebbe. Non so se egli fu assassino o vittima, se fu il fato o il suo volere ad assegnargli un destino di morte. Se si ribellòagli dei o ne ascoltò le voci. Se sia stato un santo o un demonio, se il suo sogno si realizzò o si infranse.
Posso solo tessere il mio canto sul suo animo perduto. Perché nel vostro cuore cessi l’ira, perché si stemperi l’odio.
Fate silenzio e ascoltate la storia di Aster della Terra della Notte.

*****

« Re Darlon è giunto.»
Due guardie del re vennero verso Aster. I loro volti non gli erano familiari, ma dalla sicurezza con cui si muovevano al buio senza torce intuì che erano abitanti della Terra della Notte.
Gli misero le mani addosso e lo perquisirono in silenzio; Aster sentiva che lo disprezzavano, ma non gli importava.
«Tutto a posto, il ragazzino può entrare nella tenda del Re» disse una delle due guardie.
«Costui è un Consigliere» iniziò a dire l’uomo della scorta di Aster, ma la guardia lo zittì con un cenno e fece segno ad Aster di proseguire.
Aster e Darlon si erano inseguiti per lungo tempo, ma sempre a distanza.
È la fine di una guerra non dichiarata, si disse Aster entrando.
Darlon era seduto davanti all’entrata, illuminato da un braciere che ardeva lento al centro della tenda. Nulla in lui colpiva lo sguardo. Era un vecchio, ma ancora vigoroso, e se non fosse stato per l’armatura che indossava, macchiata di sangue, poteva sembrare un uomo comune.
Un uomo comune che faceva impiccare i bambini e decapitare i soldati, pensò Aster.
«Eccoci, dunque» disse il re. «Mi chiedo il motivo per cui il Consiglio abbia mandato te. Un ragazzino ignorante di diplomazia e di politica, per di più mio nemico giurato.»
«Io qui rappresento il Consiglio. Non vi sono nemico» rispose Aster con calma.
Darlon sembrò non averlo sentito. Scrutò il ragazzo con occhio penetrante.
«Ma non ci siamo mai incontrati, vero? Ricordo il volto di tutti, e non mi sbaglio mai sulle intenzioni di un uomo. Però di te non ho memoria.»
«La mia persona non ha importanza in questo momento » disse Aster, rispettosamente.
«Nessuno fa a un uomo quel che tu hai fatto a me senza un motivo. Vuoi il potere? Vuoi impossessarti del mio regno? »
«Io non voglio niente.»
«E questo non mi è difficile crederlo» osservò Darlon. «Un uomo saggio, e tu non mi sembri stupido, avrebbe iniziato dal Consiglio. Invece tu hai cominciato da me, e questo è contro ogni logica. E se non è il potere, allora deve essere l’odio.» continuò il re. «Questi sono i due grandi motori del mondo: odio e potere, vendetta e conquista. »
Aster sentì che le mani gli tremavano.
«Non credete che un uomo possa agire anche per altri motivi? Per amore, o per ottenere il bene di chi ama, o di coloro che gli hanno concesso fiducia?»
Darlon alzò le spalle, facendo cigolare l’armatura.
«Non ho mai incontrato nessuno che ricoprisse cariche come la mia o la tua e avesse tali scopi. Chi ne aveva è morto molto prima di realizzarli.»
«Voglio solo la pace» disse Aster, «perché troppo a lungo la mia gente ha sofferto, per causa vostra.»
«Le tue parole parlano di pace, ma i tuoi occhi mandano lampi» disse Darlon.
Aster non riuscì più a trattenersi.
«Io c’ero, ho visto tutto ciò che hai fatto, i morti che hai seminato per le strade!» gridò.
Darlon ghignò: «È questo il modo di parlare a un re?»
«Tu non sei un re, sei una belva!» disse Aster, e la sua voce si levò tanto alta che le ombre delle guardie fuori della tenda si mossero.
«Tu fai massacrare i bambini, tu ami il sangue, ti piace vederlo sgorgare dalla gola degli innocenti».
Darlon rise più forte. «La colomba si svela. Ecco l’amante della pace, il mediatore. In questo momento mi uccideresti, se potessi.»
«Non sono qui per ucciderti» disse Aster, ma sentiva che se avesse avuto un’arma in mano l’avrebbe usata, senza esitazioni.
«E allora, cosa ti ho fatto per meritare tanto odio?» disse Darlon.
«C’era un villaggio, poco lontano da qui, e nel villaggio una donna e il suo bambino, un bastardo mezzosangue temuto e odiato. Un giorno tu prendesti il potere, e noi ti salutammo come un salvatore, credemmo che ci avresti dato pace e cibo; non ci interessava nulla di chi fosse il re, a malapena conoscevamo il tuo nome. Noi stavamo dalla parte di chi avrebbe placato la nostra fame. E tu mandasti i tuoi generali e i tuoi soldati. Si avventarono su di noi, ci costrinsero a nasconderci nel bosco, e là, tra gli alberi, ci portarono la tua pace: uccisero tutti, uomini, donne e bambini, inondarono di sangue la radura, ammucchiarono le loro teste mozzate sull’erba, e tra loro la testa di quella donna. Suo figlio era scappato, se l’era cavata con una freccia conficcata nella spalla, ma aveva visto tutto.»
Aster scostò la tunica e mostrò la sua cicatrice.
«Devo dirti chi era questo ragazzo?»
«Io e te non siamo poi tanto diversi» osservò Darlon senza scomporsi. «Tu vuoi la mia morte»
«Sì, la voglio» mormorò Aster. «La voglio come niente al mondo».
«Troppo tardi» disse Darlon.
Una lama scintillò improvvisa tra le mani del re. Aster sentì una puntura sul braccio, mentre la carne si lacerava, ma riuscì a pronunciare un incantesimo difensivo. Il pugnale scivolò nelle mani di Aster e Darlon si ritrovò inchiodato al suo posto, bloccato.
Aster cercò la calma perduta, rallentò il respiro. Pensò alla belva sepolta nel cuore degli uomini: anche lui ne ospitava una e l’aveva nutrita di odio per anni. Quando tornò a parlare, lo fece con voce calma.
«Il Consiglio vi offre il perdono in cambio della vostra resa. Vi permetterà di vivere in una Terra a vostra scelta, confinato in un palazzo che starà a voi scegliere. L’esilio vi sarà risparmiato».
«Riferisci al Consiglio che un re è un re, non lo si può comprare. Io non umilierò me stesso barattando la pace, io combatterò fino alla morte, e se dovrò morire, morirò da re. Non mi interessa la vittoria, non mi interessa neppure la mia vita: mi interessa che il mio onore resti integro, e lo resterà. E ora, liberami» disse.
Aster strinse con forza il pugnale tra le mani. Voleva ucciderlo. Non poteva, non doveva farlo. Sciolse l’incantesimo.
Darlon si alzò lentamente, sovrastandolo con la sua mole.
«Stavolta te la sei cavata» disse Darlon. «Ma sappi che il mio odio è ben più possente del tuo, e che ti raggiungerò ovunque».
Poi uscì dalla tenda, a passo lento, come se niente fosse accaduto.
Aster, rimasto solo, scoppiò a piangere.

___________________________________

Questo brano è stato letto in occasione del Festival delle letterature di Roma 2009.

Quella notte non so perché uscii. Le mie mani. Forse fu colpa loro.

Le guardai, e mi parvero fiori appassiti. Avevo vent’anni, ma sembravano quelle di un vecchio. D’improvviso il mio monolocale mi si strinse addosso come una tomba, e mi mancò l’aria. Infilai la giacca e uscii.

Quando accostai l’auto , lei mi si fece incontro con un sorriso.
C’erano altre ragazze sul marciapiede, mezze svestite, che cercavano sguaiatamente di attirare l’attenzione dei guidatori notturni come me. Lei non assomigliava a nessuna di loro. Capelli biondi ricci, volto ovale quasi da bambina, una giacchetta stazzonata, di jeans, sulle spalle minute. Mi sorrise quando abbassai il finestrino per guardarla meglio. Era pallidissima, ma la cosa non le dava affatto un aspetto malato. Semmai conferiva alla sua pelle la consistenza setosa della porcellana. Immaginai la morbidezza della sua carne sotto le mie dita. Capii immediatamente che c’era qualcosa di strano. Le puttane, sapevo dai racconti dei miei amici, mettevano subito in chiaro prezzo e prestazioni. Lei si limitava a sorridere. Incapace di rompere il ghiaccio, e vergognandomi un po’ di me, stavo per ripartire, quando lei aprì la portiera e semplicemente, salì a bordo. «Su, metti in moto» disse.
Era la prima volta che andavo con una puttana, e immaginavo che ci fosse un hotel dove quelle come lei portavano i clienti. Ma non osavo chiederlo in modo diretto.
«Hai… un posto dove andare?» dissi alla fine.
Mi guardò come avessi detto una sciocchezza e mi sentii ancora più in imbarazzo. Poi alzò un dito e indicò la strada davanti a noi. «Di là».
Continuò a guidarmi con brevi parole e cenni tra le vie di quella periferia labirintica, persa tra casermoni, villette abusive e larghi prati incolti. Io le guardavo il movimento delle labbra rosso sangue, sentendo che il cuore mi batteva forte. Non ero mai stato uno da batticuore. La vita m’era sempre scivolata addosso, anche quando ero ancora nel mio paese di montagna, non solo in quella città senz’anima.
«È qui» disse poi. «Fermati».
Era un posto desolato. L’incrocio tra due vie quasi sterrate. Dietro di noi, gli ultimi palazzi abusivi. Davanti, un prato immenso, con un casolare in rovina da un lato. C’era immondizia ovunque. Mi fece cenno di scendere. C’era silenzio, solo il ronzio distante delle macchine, sull’autostrada vicina. La luna piena sembrava immensa e stranamente nitida. Lei si appoggiò al cofano, lo sguardo al cielo. Per rompere il silenzio, le dissi che faceva bene a guardare in su. Quel posto faceva davvero schifo.
Lei mi indicò le targhe stradali. «Leggi».
Endimione. Selene. Non li avevo mai sentiti. Avevo smesso la scuola a tredici anni, e non mi era rimasto molto. Studiare era una perdita di tempo, era stato il primo insegnamento di mio padre.
Lei sorrise canzonatoria.
«Tu che ami tanto i miti, dovresti conoscerli».
Il cuore perse un battito. Da ragazzino mi avevano regalato un libro. Scoprii più in là che erano miti greci. Per me erano solo favole splendide e tristissime. Era l’unico libro che avessi mai letto, e ce l’avevo ancora con me. Delle poche cose che m’ero tirato dietro dal paese, quella era l’unica che contasse davvero. Ormai era un libro liso e vecchio, le pagine consumate dal sudore, ma lo tenevo ancora vicino al letto, e spesso lo sfogliavo. Lei come faceva a saperlo?
La ragazza si avvicinò, mi cinse il collo con le mani, e affondò la testa sul mio petto. La sentii aspirare lentamente il mio odore. I suoi capelli sapevano di notte e frescura.
«Selene era una dea, la dea della Luna piena». Alzò un dito al cielo. La luna sembrava come pulsare, viva, in quel corpo di tenebra.
«Ma anche le dee, per quanto candide e distanti, si fanno invischiare dalle cose della terra». Si mise a sbottonarmi la camicia, un bottone alla volta. Sentivo il tocco lieve delle sue unghie.
«E Selene un giorno vide un giovane bellissimo, addormentato in una grotta».
Mi appose un unico, lieve bacio sul petto, e io sentii qualcosa sciogliersi, là dove viveva e si nutriva il vuoto che mi abitava fin da quando ero nato.
«Era un principe, la pelle candida» disse, e mi tolse la camicia «le braccia forti» e mi passò le mani sulle spalle, «il petto ampio». Due baci, uno per capezzolo. Il rumore della città si dissolse, tutto sprofondò in una quiete ovattata, innaturale. Come voci umane, si alzò un canto che stentai a riconoscere. Erano grilli, a migliaia, spuntati dal nulla.
Le tolsi la giacca, guardai i suoi capelli caderle sulle spalle in una cascata brillante. Ero completamente ammaliato. «Si chiamava Endimione» continuò staccandosi un istante. Si tolse la maglietta, scoprendo i seni minuti. Li presi tra le mani, con delicatezza, e mi riempirono i palmi di un tepore che mi diede i brividi.
«Selene se ne innamorò perdutamente, ed Endimione fece lo stesso con lei. Ogni notte si incontravano, e il loro amore fu fecondo».
Intorno a noi, ogni cosa parve trasfigurarsi. La strada finì inghiottita dall’erba, i ruderi, le brutte case dietro di noi, ogni cosa scomparve, e mi trovai a poggiare i miei piedi nudi sull’erba rorida di rugiada. Ci baciammo a lungo, con passione, e ci ritrovammo a terra, non so dire come, le sue dita strette nei miei capelli, le mie a stringerle le natiche.
«Ma lei era una dea» disse «ed era immortale. Lui era un vivente, e la tomba lo attendeva alla fine della sua vita».
Le si formò una ruga di dolore sulla fronte, tra gli occhi. L’accarezzai con un dito, sentendo il suo dolore. Le dissi piano di non piangere, e lei mi baciò ancora.
La luna gigantesca che ci aveva accolti scomparve per lasciare il posto a una volta di pietra. Odore di muschio e roccia, odore di grotta.
«Allora Endimione, spaventato dalla propria mortalità, scelse di addormentarsi di un sonno senza fine, nel quale sognare Selene, e lasciare così che il loro amore vivesse in eterno» disse.
Era bellissima. Il suo volto, il suo corpo, tutto in lei parlava di una perfezione che non poteva essere umana.
«Ma Selene non seppe rassegnarsi. Ogni notte abbandonava il cielo e si recava nella grotta in cui Endimione giaceva assopito. Ogni notte copriva il suo corpo di baci, ogni notte riviveva l’ombra pallida del loro amore» disse infine, e mi baciò con passione, stringendomi a sé, le sue unghie che affondavano nella mia schiena.
Ci amammo. E la sentii così mia, e mi sentii così suo, che quel vuoto famelico che mi aveva spinto ad uscire, neppure un’ora prima, parve riempirsi tutto d’un tratto. Traboccavo di emozioni contrastanti, e mi sentivo come non potessi reggerne il peso, come se la loro forza potesse distruggermi. Ma ero felice, felice!, come mai prima di allora.

Giacemmo per qualche tempo a terra. Mi sentivo intontito, stupito, ed esausto. Era come essere appena nati. La grandezza e la bellezza del mondo mi sconvolgevano e mi trasmettevano un doloroso senso di gioia.
La roccia sotto la quale avevamo fatto l’amore era scomparsa di nuovo, e il cielo su di me mi sembrava immenso e terribile. Credetti che tutta quella bellezza potesse uccidermi.
Sto sognando…pensai mentre sentivo il petto della ragazza contro il mio alzarsi ed abbassarsi dolcemente. O forse avevo dormito fino a quel momento, e improvvisamente mi ero svegliato. Sì, doveva essere così. Quello sarebbe stato il primo giorno della mia nuova vita.
Le cinsi con più forza le spalle con un braccio. Le chiesi di restare per sempre con me, mentre i contorni delle cose si facevano sempre più indistinti.
Il suo volto sembrò quello di un’icona mentre rispose: «Non ancora».
Prima di sprofondare nel buio dell’incoscienza, le chiesi come si chiamasse.
«Luna» mi sussurrò in un orecchio, e fu l’ultima cosa che sentii.

Quando mi svegliai, lei non c’era più. Giacevo supino sotto un cielo anonimo. Poche stelle, e la luna era scomparsa, tramontata dietro l’ombra del casolare che avevo visto appena arrivato.
Tirai su la testa. Ero vestito, portavo persino la giacca. L’erba secca mi pungeva il dorso delle mani.
Mi misi a sedere di scatto.
«Luna?».
Mi rispose solo il ronzio dell’autostrada. Luna era scomparsa, e con lei lo splendore. Vidi i mucchietti di immondizia, il prato spelato, la silouhette delle case del quartiere.
Dov’era quella bellezza che mi aveva fatto tremare il cuore appena pochi istanti prima?
Mi misi in macchina e tornai dove l’avevo incontrata. Chiesi alle poche ragazze rimaste. Nessuno si ricordava di lei. Neppure di me, a dire il vero. Provai un’ angoscia insopportabile. L’esperienza più intensa e vera della mia vita era stata solo frutto della mia immaginazione?

Tornai. La notte seguente, e quella dopo ancora, e così per un mese. Andai dove l’avevo incontrata, l’attesi, battei quella strada palmo a palmo. Ma lei non si fece mai vedere.
Smisi di dormire. Perché lei viveva nella notte, lo sentivo, non poteva esistere se non sotto una luna enorme, e nel buio delle sere estive. E trascorrevo le ore prima dell’ alba al volante, cercandola, consumandomi. Rischiai di morire per questo. Portavo un secchio di calcinacci su un ponteggio e mi si chiusero gli occhi. Mi addormentai in bilico su un asse, mi aggrappai all’impalcatura solo per riflesso. E allora decisi. Potevo consumarmi in quel sogno, inseguirlo per una vita intera, oppure rassegnarmi. Nella vita di quelli come me non esistono ragazze così. Nessuna Luna ti viene a salvare da un presente di squallore. L’unica realtà è la malta e il sudore, i soldi che ti bevi nel fine settimana. Chiusi il ricordo di quella notte in un cassetto, assieme al mio vecchio libro di miti che non aveva mai contenuto la storia di Endimione e Selene. Forse avevo sognato anche quella.

Mia moglie la incontrai al supermercato dove andavo tutti i sabati mattina. Aveva le mie stesse mani spaccate dal lavoro, e uno sguardo da bestia ferita in cui mi ritrovavo. Non era una bellezza nemmeno allora che era giovane, e non faceva niente per rendersi più attraente. Ma aveva il mio stesso odore. Odore di casa popolare, di moka e detersivo a buon mercato.
Quando la portai al paese, i miei l’adorarono fin da subito. Ci sposammo sei mesi dopo aver fatto l’amore per la prima volta.
Non so dire se fossi infelice. La vita semplicemente scorreva senza intoppi. Ogni cosa mi scivolava addosso, andavo con la corrente.
Lei rimase incinta un anno dopo. Nessuna particolare emozione quando me lo disse. Solo un nodo in gola. Ma c’erano già passati gli altri, no? Tutti si sposano, hanno dei figli, invecchiano e muoiono. Fu quando lo vidi che il mondo cambiò. Piccolo inerme e bruttissimo. Ma era un miracolo che non sapevo spiegarmi. Lo amai da subito, di un amore incondizionato e assoluto, dello stesso amore di quella sera lontana, che avevo voluto cancellare dalla mia memoria.

I primi tempi è facile. Da te non vogliono molto. Che li sfami, che li pulisci, e ricambiano in modo incondizionato il tuo affetto. I figli ti amano davvero solo quando sono piccoli. Poi crescono, e si aprono crepe nella fede cieca che hanno in te. E se non corri ai ripari, quelle crepe diventano voragini, e inghiottono tutto quanto c’è stato prima. E io non sono stato capace di coltivare quell’amore. E l’incidente ci separò per sempre. Mi hanno detto che è stata colpa del conducente dell’altra macchina. Mi hanno detto che non avrei potuto far nulla neppure se avessi voluto. Ma io so che quando la macchina prese fuoco, slacciai la cintura e scappai senza fermarmi. E lei rimase dentro. Mio figlio non mi perdonò di essere sopravvissuto. Dopo l’università non tornò a casa. Me lo ricordo impeccabile nel suo completo grigio, mentre parlava davanti alla commissione. È l’ultima immagine che ho di lui. Non so nemmeno dove abita, che cosa faccia. Ha cambiato il numero di telefono dopo un paio di volte che ho provato a chiamarlo.
Ci penso spesso. A cosa avrei potuto fare, e cosa sarebbe cambiato nella mia vita se l’avessi salvata. E non so rispondermi. Col tempo, il senso di colpa è cristallizzato in qualcosa con cui convivo notte e giorno. Fa parte di me, è il mio modo di essere. È il prezzo che pago ogni ora per quel che sarebbe potuto essere, e non è mai stato.
Gli anni dopo li ricordo a stento. Sono avvolti dalla nebbia. La solitudine, di nuovo, come quando avevo vent’anni. Di nuovo un monolocale, l’unico che potevo permettermi con la mia pensione. È come se il tempo si fosse accartocciato su se stesso, cancellando tutto quello che era stato, il buono e il cattivo. Come fosse stata inutile questa strada percorsa, questo affannarsi a vivere una vita già scritta.
E poi questa sera ho aperto il baule. Non lo facevo da anni. Il libro. Il vecchio libro di miti. Nascosto dalle carte, impolverato e più stinto ancora di come lo ricordassi.
L’ho sfogliato. Mi sembrava di aprire le pagine di un manoscritto antichissimo, mi sembrava di violare la pace di una tomba perduta. Achille, Ulisse, gli dei. Le storie della mia infanzia.
Poi, un capello d’oro purissimo tra due pagine. L’ho preso sollevandolo in aria come una reliquia preziosissima. Un raggio di Luna.
Ho guardato le pagine tra cui era racchiuso. La storia di Endimione e Selene. Eppure ero certo che non ci fosse, che il libro non la raccontasse. Le parole erano le stesse che aveva usato lei quella sera. Ho sentito nelle orecchie la sua voce, ho sentito sulla pelle il tocco delle sue labbra, sulla schiena le sue unghie.
Ho richiuso il libro. Le mie mani. Come quella sera. Avvizzite per davvero, ora, secche. Ma vive. Più vive che mai.
Sono uscito.
Non ho avuto problemi a trovare l’incrocio. Credevo di averlo dimenticato, credevo di essere riuscito a seppellire il ricordo di quella notte sotto il cumulo di fallimenti che è stata la mia vita. E invece era l’immagine più vivida della mia memoria, l’unica cosa vera in anni di sonno.
Via Endimione. Via Selene. E un mondo che non conoscevo intorno.
Il prato era scomparso, inghiottito da una colata di cemento. Palazzine popolari alte dieci piani strette l’una all’altra, cercando di rubarsi una fetta d’aria. L’autostrada era diventata più grande, il rombo dei motori copriva ogni altro suono.
Il posto dove avevo fatto l’amore con Luna non esisteva più. Nulla di ciò che avevo amato era rimasto. Persino i ricordi erano diventati cenere e cemento.
Poi all’improvviso ogni suono si è spento. Una nebbia sottile è calata sui muri coperti dai graffiti, sull’asfalto sconnesso. Il mio cuore ha perso un battito. Perché l’ho sentita. Il passo lieve delle sue scarpe da tennis. E quell’odore, inconfondibile, amato, desiderato per una vita intera. Odore di muschio e frescura, odore di notte. Alle mie spalle.
Non riuscivo a girarmi. Se mi giro, pensavo, troverò solo la mia macchina, e altre case, altro squallore. Se mi giro mi resterà soltanto la morte, e il nulla.
Ma lei mi ha preso una mano. Ho sentito la morbidezza della sua pelle sotto il mio palmo calloso. Mi ha costretto a voltarmi, dolcemente.
E ora la guardo.
L’oro dei suoi capelli. Il pallore della sua pelle. Il rossetto rosso, sulle sue labbra.
E’ lei com’era quella sera.
Il quartiere è scomparso. Le case si sbriciolano sotto i miei occhi, l’asfalto finisce inghiottito dall’erba. La luna, ora, occupa quasi tutto il cielo.
Lei indossa una veste candida, un peplo che le avvolge i fianchi. Ma è la stessa di allora, come non fosse passato un giorno solo. Lei che ho cercato ogni singolo istante della mia vita. Lei che ha riempito d’aria i miei polmoni, è lei che m’ha guidata in ogni passo. È lei la fine e l’inizio.
Glielo dico. Che l’ho attesa una vita intera. Lei sorride.
«Io anche di più».
Le dico che è troppo tardi. Che è finita. Che io non sono più quello di allora.
«È per questo che puoi venire infine da me» dice lei. «Hai ancora paura?» mi chiede.
No, scuoto la testa, non più. C’è una volta di roccia sopra le nostre teste, come quella sera. E io non dormo più. Ho sognato una vita intera, fuggendo l’unica cosa reale, scappando dal peso di questa vita mortale. Ma la fine non mi fa più paura, se c’è lei con me.
«È tempo di svegliarsi, allora» mi dice.
Il mio cuore batte sempre più lento, e il mio corpo è un peso dal quale lentamente mi allontano. Un bacio, a cogliere l’ultimo mio respiro.
Le chiedo se posso andare con lei.
Mi sorride.
«Adesso sì».